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Inside Out 2 ci spiega cos’è l’ansia da performance

Siamo andati a vedere Inside out 2, come la maggior parte degli psicologi che conosciamo… dai, non potevamo mancare!

E così, è ora che anche noi diciamo la nostra, d’altra parte ne hanno parlato tutti!

Premettiamo che da bravi psicologi della musica ci ha divertito un sacco la minaccia incombente per Riley di diventare etnomusicologa se mai dovesse fallire… autori della Pixar, ci rivolgiamo a voi: ma perché?!! Comunque grazie, è stata davvero una sorpresa beccare l’etnomusicologia citata in Inside Out 2, ne siamo onorati.

Ansia da performance nello sport e nella musica

Ma andiamo sugli aspetti più seri e sul perché anche noi siamo qui a scrivere di Inside Out 2. Ne stiamo scrivendo perché rappresenta perfettamente come nasce, precipita e poi si supera l’ansia da performance. Certo, Riley è una sportiva, gioca ad Hokey, noi invece ci prendiamo cura della performance dei musicisti, ma tutto sommato non c’è una grande differenza tra sport e musica.

Entrambi richiedono sacrificio, pratica, impegno, passione e poi tutto il nostro futuro sembra giocarsi durante la partita o il concerto, momento in cui avremo gli occhi puntati addosso e mille variabili fuori dal nostro controllo influenzeranno la nostra resa.

Potremmo entrare nel Flow, essere super concentrati, provare piacere e essere al top oppure, potrebbe essere un disastro, continuare a sbagliare, fare scelte forzate, avere l’impressione di non riuscire a entrare in quello che stiamo facendo. Insomma, in alternativa al Flow potrebbe insorgere l’ansia da performance, non quella buona, ma quella che ci impedisce di esprimerci al massimo.

Ed è quello che succede a Riley.

All’inizio, quando è bambina, giocare e seguire il flusso è semplice, ma poi succede qualcosa…

La psicologia dietro Inside Out 2

Per comprendere cosa succede in Riley, facciamo un passo dietro le quinte di Inside Out. Con grande stupore (almeno quasi quanto quello per gli etnomusicologi) guardando scorrere i titoli di coda (per vedere, si sa, quell’ultimo video tanto atteso che premia chi rimane fino alla fine), abbiamo scoperto grandi nomi della psicologia tra gli Psychological Consultant di Inside Out. Come anche nel primo Inside Out, c’erano Dacher Keltner e Paul Ekman, esperti a livello mondiale di emozioni. E infatti all’inizio c’è l’analisi dettagliata delle espressioni facciali che, chi conosce il FACS –  Facial Action Coding System (tra le altre cose, noi ne siamo codificatori, quindi occhio alle espressioni del viso che fate!) ha sicuramente riconosciuto nella scena in cui Riley è in macchina con le amiche all’inizio del film.

Ma oltre al contributo di Ekman e Keltner stavolta è stata chiesta la supervisione di Kristin Neff.

Chi è Kristin Neff?

 

Kristin Neff e la Self-Compassion

Kristin Neff è una ricercatrice americana che si occupa di Self-Compassion. Collabora a stretto contatto con un grande psicoterapeuta americano, Chris Germer e insieme hanno ideato il Mindful Self Compassion Program, un percorso di meditazione finalizzato a sviluppare la Self-Compassion. Abbiamo conosciuto la Neff qualche anno fa, a Londra, e insieme a Paul Gilbert, è stata fonte di grande ispirazione per il nostro lavoro di supporto per i musicisti, proprio per quel che riguarda il “trattarsi con gentilezza, soprattutto quando le cose non vanno come vorremmo”.

La Self-Compassion è una scelta consapevole, basata sulla motivazione a prenderci cura di noi, con affetto, di fronte al dolore, invece che continuare a bastonarci quando non rispondiamo ai nostri standard di perfezione. Questo non significa essere indulgenti e mollare di fronte alle difficoltà, perché la self-compassion è anche un modo per sostenerci, per aiutarci a trovare la forza necessaria per fare la fatica o affrontare il disagio e la minaccia davanti a noi.

Il training basato sulla Self-compassion ci permette di costruire dentro di noi un amico rassicurante, comprensivo, forte e saggio che in ogni momento è lì a tenderci la mano, sostenerci e abbracciarci con amore. Bello, no?

Per sviluppare la self-compassion abbiamo bisogno di tre ingredienti:

  • La consapevolezza del momento presente
  • La gentilezza
  • La common humanity

Vedremo come vengono toccati tutti e tre nel film.

Perché la self-compassion è così importante nell’ansia da performance?

Trattarci con gentilezza è importante perché quando il gioco si fa duro e si alzano gli standard, aumenta la fatica e aumenta anche la frustrazione e la paura che non ce la faremo. Di fronte a queste minacce, in automatico si risveglia la nostra parte critica, che ha due facce, una apparentemente funzionale e una disfunzionale.

La parte critica funzionale ci motiva, ci dice di fare di più, di impegnarci, ci dice che facendo così saremo accettati, amati, inclusi. Per questo ne siamo affezionati: sembra sia dalla nostra parte e che voglia il nostro meglio, per evitare l’esclusione e il rifiuto sociale. Bastonandoci e minacciandoci ci porta a impegnarci e noi le obbediamo.

L’altra faccia della medaglia dell’autocritica, però, è che questa parte ci dice che dobbiamo essere “meglio degli altri”, o comunque “perfetti”, nascondendo le nostre fragilità, ci dice che non abbiamo scelta. Quando iniziamo a dare forma a questo pensiero è un attimo che emerga con esso anche il suo opposto, vale a dire “non siamo all’altezza”.

Nel cartone questa parte “motivatrice” critica, la vediamo rappresentata da Ansia. Ansia si nutre di immagini catastrofiche da evitare, instilla in Riley la credenza che “se è meglio delle altre, avrà amici e non rimarrà sola”, la motiva a fare di più, sempre di più. Finché Riley, si sconnette e arriva il pensiero “non sono all’altezza”, che porta al black out totale.

Il concetto del Sé nell’ansia da performance

È solo un cartone? Beh, sì, sicuramente nel nostro cervello non ci sono personaggi buffi arancioni dietro una console, ma il cartone rappresenta perfettamente cosa significa irrigidirsi su un senso del sé dettato dall’autocritica. L’autocritica, infatti, giudica il Sé, come se fosse un oggetto tangibile, lo soppesa e stima rispetto alle qualità desiderabili socialmente.

Il concetto del sé, di chi siamo, di chi vorremmo essere, delle etichette che ci incolliamo addosso, è molto affasciante in psicologia.

Negli anni Novanta si pensava che il concetto del Sé che portava le persone a star bene e a prosperare fosse di un sé “positivo”. In quegli anni si parlava di auto-stima e negli Stati Uniti furono investiti milioni di dollari per “aumentare l’autostima” in tutti gli americani.

La Neff nel suo libro “The power of Self-Compassion” cita i programmi basati sul non dare mai cattivi voti, etichettare se stessi come positivi, bravi, gentili… anzi, più bravi e più gentili!

E in effetti, a seguito di questi programmi, è aumentata l’autostima degli americani negli anni Novanta. Wow, direte voi… e invece la Neff ci fa notare che insieme all’autostima è aumentato anche il malessere e il sentirsi soli. Perché? Proprio su questo la Neff ha condotto i suoi studi.

Pensarsi meglio degli altri o perfetti, non toglie l’ansia, anzi, come succede in Riley, diventa una prigione. Dobbiamo eccellere, dobbiamo essere perfetti per essere inclusi. Questo implica che quando non lo siamo cercheremo di schiacciare gli altri, ad esempio denigrandoli o svalorizzandoli, oppure ci isoleremo per la vergogna. Inoltre, l’ansia di dover essere all’altezza, ci porterà a evitare le situazioni di rischio, quelle nuove in cui metterci alla prova, per paura di fallire. Evitare ridurrà le nostre possibilità di crescita.

L’autostima, quindi, basata sul giudizio del Sé, se da una parte ci motiva (e anche Riley, all’inizio è motivata ad allenarsi di più), dall’altra ci isola, ci blocca e ci impedisce di evolverci.

Quindi come si esce dall’auto-critica?

Nel film Riley inizia a uscire dall’autocritica quando i vecchi sé (quello adorabile di Gioia basato sull’essere gentile, brava, una buona amica e quello rigido di Ansia, basato sull’essere la migliore) vengono letteralmente buttati via, dando spazio a un nuovo sé, costruito su tutte le nostre esperienze, sia quelle positive, sia quelle negative. Quelle negative, non vengono più dimenticate e ritenute qualcosa da evitare, ma diventano la base per costruire, insieme alle esperienze di connessione e gioia, un sé che ha molti lati e molte sfaccettature.

Uscire dall’autocritica, fuori dal cartone, significa abbracciare e amare ogni parte di noi stessi: certo è facile amare i nostri talenti, i nostri lati che vengono apprezzati da tutti. Ma è importante abbracciare con gentilezza anche la nostra vulnerabilità, la nostra sfiducia, la nostra rabbia, i lati di cui ci vergogniamo. Solo abbracciando per intero tutto ciò che siamo, senza giudizio, possiamo affrontare ogni situazione, ogni sfida, possiamo permetterci di fallire, perché non saremo soli e troveremo le risorse per andare avanti e svilupparci. Ogni performance è solo parte del percorso e dell’insegnamento per crescere. A volte ci arrabbieremo, a volte avremo paura, a volte saremo tristi, ma dentro di noi c’è sempre posto per tutte le emozioni e per tutte le esperienze.

Oltre la paura del giudizio

E il giudizio degli altri? Anche questo tema è affrontato in Inside Out: siamo tutti sulla stessa barca, condizione umana chiamata dalla Neff Common Humanity. Le amiche di Riley quando si accorgono del suo dolore arrivano ad abbracciarla, a chiederle come sta, perché non dobbiamo farcela da soli. Le emozioni servono anche a questo, ad aiutarci, a darci sostegno e a sentirci tutti insieme in questa grande sfida che è la vita. Gli altri ci amano così come siamo, perché anche loro sono come sono. Quello che poi fa la differenza sono le nostre scelte, le nostre passioni e come cerchiamo di coltivare ciò che è importante per noi.

La self-compassion in musica!

Vi abbiamo confuso?

Beh, se non avete visto il cartone di sicuro!

Ma anche per chi non l’ha visto, da bravi psicologi della musica, vi facciamo entrare un po’ dentro le vicende di Riley, non con le immagini, bensì analizzando la colonna sonora!

Vi presentiamo Growing up it’s hard to do di Datzman, il brano che accompagna il momento in cui Riley sviluppa un attacco di panico e ne esce, contattando il momento presente, la common humanity e la gentilezza. La musica ancora una volta descrive perfettamente cosa succede dentro di noi, meglio di come possono fare mille parole.

C’è tutto quello che serve per comprendere cos’è la self compassion , buona visione del video!

 

 

 

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